No. 104 / Noviembre 2017


Fragmentos de Cuerpo de Tiziano Scarpa



Los siguientes fragmentos de Cuerpo de Tiziano Scarpa son fruto del trabajo del Laboratorio Trādūxit, el laboratorio de traducción literaria colectiva del italiano al español que desde 2015 coordinan “a cuatro manos” Barbara Bertoni, italiana, y Tomás Serrano Coronado, mexicano, en el Instituto Italiano de Cultura Ciudad de México con participantes presenciales y a distancia (España y Argentina). En el laboratorio se traduce con miras a la publicación y respetando la variante lingüística de los participantes. El grupo de traductores que conforma el Laboratorio es muy heterogéneo, debido a su formación, edades y profesiones.

Al Laboratorio Trādūxit le interesa difundir la literatura italiana en los países de habla hispana y producir traducciones en las que los lectores de cada país se reconozcan. En el caso de Cuerpo se produjeron tres versiones del texto final: una al español de México, otra al de Argentina y otra al de España.

Cuerpo es un muestrario del cuerpo humano en cincuenta breves ensayos líricos, un catálogo de partes por re-conocer compuesto de ironía, imágenes poéticas y a veces meras ocurrencias en torno a la anatomía del autor. La de Scarpa parece la premisa de cualquier otro poeta: decir nuevamente el mundo. Volverlo extra-ordinario. Nuestro contacto cotidiano con nosotros mismos y las partes físicas que nos componen conlleva un conocimiento previo de los protagonistas de Cuerpo. Pero el lector se enfrenta a giros de lenguaje que le hacen percibir de otra manera su propio cuerpo. El corazón de Scarpa es un hipócrita que, contrariamente a su fachada generosa y altruista, practica un amor codicioso, ensimismado. Si los testículos son por convención epítome de fuerza y valentía, para el autor, se vuelven dos peras de boxeo. Uno podría decir que las propiedades de las gónadas (la fragilidad) existían a priori. Virtud, entonces, del poeta sacarlas a la luz.




Ciglia

Il mio sguardo è peloso.

Le mie palpebre sono ornate di spine, come i petali di una pianta carnivora. Si spalancano per spaventare la preda, mostrano la terribile bocca del pozzo che divora qualsiasi cosa su cui mette gli occhi. Niente e nessuno osa posarsi sulla mia vorace pupilla. Quando un moschino viene catturato nelle palpebre bivalvi, l’interno delle fauci si irrita, la mucosa digestiva impazzisce; saliva oculare cola dalle ghiandole lacrimali. Disgustato, l’occhio sputa fuori il bruscolo.

Le mie ciglia sono la radiazione dei miei occhi. Le mie due stelle emettono raggi che si inoltrano nello spazio cosmico per qualche millimetro.

Di tanto in tanto un pelo di ciglia muore a mia insaputa. Chi si ferma a parlare con me, prima o poi me lo indica: «Una virgola si è posata sulla tua guancia, una piccola parentesi) un’apostrofo; sta cercando di imitare una lacrima».

Le ciglia sono pungiglioni di api, esposte come trofei sul portale del mio sguardo velenoso.

Il dorso dei miei occhi è un istrice irto di ciglia. Quando si avvicina il pericolo lancia occhiate che trafiggono.

Di tutta la peluria del corpo, le ciglia delle donne sono le uniche a essere piú folte, piú lunghe, piú forti di quelle degli uomini. Lo sguardo delle femmine è piú virile di quello dei maschi.

Le mie sopracciglia sono due scolopendre dai fianchi sinuosi.

Due millepiedi si dimenano sopra i miei occhi.

Ciascuna delle mie sopracciglia studia i movimenti dell’avversaria; aspetta il momento buono per attaccare. Ne rispecchia le mosse, scatta simultanea. Raramente una delle due si muove da sola. E nonostante tutte queste scaramucce, non si è mai visto un attacco portato fino in fondo. D’altronde, le due trincee non sono disposte in parallelo, ma in asse. Una delle due sopracciglia si è ammutinata, ma ciascuna ritiene di essere la legittima comandante; per questo cerca di bruciare l’altra sul tempo, assumendo per prima la postura piú espressiva: vuole dimostrare di essere la portavoce piú autentica della faccia. Sopra i miei occhi si combatte una defatigante guerra di posizione, che devasta il territorio, inquina la purezza intellettuale dello sguardo. La contesa fa strabuzzare controvoglia gli occhi, li costringe a adombrarsi, li acciglia.

Le mie sopracciglia sono due grondaie, due modanature della facciata: deviano dagli occhi tutti i colliri acidi che cadono dall’alto. Guardare il mondo attraverso la lente della pioggia lo deforma, lo rende troppo irreale. Guardarlo attraverso il sudore della fronte lo rende troppo reale.




Pestañas

Mi mirada es peluda.

Mis párpados están adornados con espinas, como los pétalos de una planta carnívora. Se abren de par en par para espantar a la presa, enseñan la terrible boca del pozo que devora todo aquello a lo que le echa el ojo. Nada ni nadie osa posarse sobre mi pupila voraz. Cuando los párpados bivalvos atrapan una mosquita, el interior de las fauces se irrita, la mucosa gástrica enloquece; saliva ocular chorrea de las glándulas lacrimales. Disgustado, el ojo escupe la basurita.

Mis pestañas son la radiación de mis ojos. Mis dos estrellas emiten rayos que se adentran unos milímetros en el espacio cósmico.

De vez en cuando, un pelo de pestañas muere sin que yo me percate. Quien se detiene a hablar conmigo, tarde o temprano, me lo indica: “Una coma se posó sobre tu mejilla, un pequeño paréntesis), un’apóstrofo; está intentando imitar una lágrima”.

Las pestañas son aguijones de abejas, expuestas como trofeos en el portal de mi mirada venenosa.

El dorso de mis ojos es un puercoespín pletórico de pestañas. Cuando se acerca el peligro, arroja miradas que traspasan.

De todo el vello del cuerpo, las pestañas de las mujeres son las únicas que son más pobladas, más largas, más fuertes que las de los hombres. La mirada de las hembras es más viril que la de los varones.

Mis cejas son dos escolopendras de caderas sinuosas.

Dos ciempiés se menean arriba de mis ojos.

Cada una de mis cejas estudia los movimientos de la adversaria; espera el momento justo para atacar. Refleja las acciones de la otra, se dispara simultánea. Rara vez una de las dos se mueve sola. Y a pesar de todas estas escaramuzas, nunca se ha visto un ataque llevado hasta el final. Por otra parte, las dos trincheras están dispuestas en eje, no en paralelo. Una de las dos cejas se amotinó, pero cada una cree ser la legítima comandante; por eso, trata de ganarle a la otra en velocidad, adoptando primero la postura más expresiva: quiere demostrar que es la portavoz más auténtica de la cara. Arriba de mis ojos, se lleva a cabo una fatigante guerra de posiciones, que devasta el territorio, contamina la pureza intelectual de la mirada. La contienda hace que los ojos se abran de mala gana como platos, los obliga a ensombrecerse, a fruncir el ceño.

Mis cejas son dos canalones, dos molduras de la fachada: desvían de los ojos todos los colirios ácidos que caen desde arriba. Mirar el mundo a través de la lente de la lluvia lo deforma, lo vuelve demasiado irreal. Mirarlo a través del sudor de la frente lo vuelve demasiado real.




Denti

Addento, rodo, mastico, fino a spolpare per bene i miei denti. Anche fuori dai pasti, succhio senza sosta questo pezzo del mio scheletro rosicchiato fino all’osso.

Ogni dente ha un fratello: gli incisivi centrali stanno a braccetto, hanno bisogno di darsi man forte, sono cosí sottili. Via via che si allontanano uno dall’altro, le coppie di gemelli si ispessiscono, devono farsi forza, sopportare la solitudine, la mestizia dell’abbandono. Ogni dente contiene se stesso e la nostalgia del suo doppio, il gemello omozigote separato dalla nascita.

Dalle pareti della caverna trasuda una saliva calcarea. Si formano incrostazioni lucide di umidità, pinnacoli gocciolanti; dal contorno del soffitto palatale pendono stalattiti; stalagmiti crescono dalla mandibola.

Allineati uno di fianco all’altro, in due file parallele, i miei denti sono monumenti sordi, statue silenziose che racchiudono oracoli numinosi. Una sacerdotessa muscolosa vive nel pantheon, fra le divinità del cielo e della terra. Si dimena estaticamente; solo lei conosce le formule arcane, i gesti rituali: sa come toccare i simulacri d’avorio degli dèi per suscitare responsi.

Le sillabe vanno a infrangersi sui miei denti. Le consonanti si spezzano: escono dalla bocca nuove di zecca, lisce, risplendenti sulla superficie del taglio.

Mangiare, lavarsi. Masticare, spazzolarsi. Distruggere; e poi nascondere al piú presto le tracce della distruzione. Fare finta di niente. Ripulirsi la coscienza. Mostrarsi sempre candidi e innocenti. Sorridere affabilmente, digrignando.

Lo stomaco brontola; il naso fiuta promesse di pietanze succulente; la lingua si lecca i baffi; mi viene l’acquolina in bocca. Solo i miei denti, che pure fra poco avranno tanta parte in causa, restano indifferenti alla prospettiva di mettersi a tavola. Mangiare o non mangiare: cosa cambia per loro? Non ingrasseranno; non dimagriranno. Eppure, una volta cominciato il pasto, si trasformano in commensali voracissimi. Frantumano il cibo per carpirne il segreto, ne ispezionano le fibre piú intime alla ricerca di quella cosa che tutti quanti chiamano sapore, e che loro soltanto non conoscono ancora. I miei denti sono sordomuti che smontano la radiolina alla ricerca della voce, la fracassano spazientiti. Si vendicano del boccone che procura gioia a tutti fuorché a loro; ma straziandolo non fanno che aumentare il piacere del gusto.

I miei denti sono stati covati a lungo dalle gengive. Dopo il parto non sono piú riusciti a staccarsi dalla madre, le sono rimasti abbarbicati con solidissimi legami, tramite cordoni ombelicali inestirpabili.

Eh, i denti di una volta! I miei denti da latte erano molto meno mammoni di questa nuova generazione; i miei denti da latte si sono staccati giovanissimi dalla famiglia; chissà dove saranno adesso, che gente frequentano.

Prime ossa a cariarsi mentre vivo, ultime a sgretolarsi quando sarò morto, i miei denti diventeranno la parte piú duratura di me stesso soltanto quando io mi farò da parte. Sono io che metto a repentaglio il mio corpo, non è il mio corpo che mi estingue. Per garantire la salute dei miei denti dovrei smettere non solo di mangiare, di lavarli, di essere sollecito verso di loro, ma semplicemente di essere. Da morto diventerò perfettamente sano.

Quando non voglio sapere che ore sono, mi mordo il dorso del polso; l’impronta dei miei denti incide un orologio senza lancette. Il quadrante segna tutti gli istanti e nessuno. Non è doloroso, e passa presto. Sulla mia pelle non ne rimane traccia. L’eternità svanisce in pochi minuti.




Dientes

Muerdo, royo, mastico hasta despellejar a la perfección mis dientes. Hasta entre comidas, chupo sin parar este pedazo de mi esqueleto mordisqueado hasta el hueso.

Cada diente tiene un hermano: los incisivos centrales están tomados del brazo, necesitan echarse la mano, de lo finos que son. Entre más se alejan uno del otro, tanto más gruesos se hacen los pares de gemelos, deben darse ánimo, soportar la soledad, la pesadumbre del abandono. Cada diente se contiene a sí mismo y a la nostalgia de su doble, el gemelo homocigótico separado desde el nacimiento.

De las paredes de la caverna, exuda una saliva calcárea. Se forman incrustaciones relucientes de humedad, pináculos que gotean; del contorno del techo palatal, cuelgan estalactitas; estalagmitas crecen de la mandíbula.

Alineados uno al lado del otro, en dos filas paralelas, mis dientes son monumentos sordos, estatuas silenciosas que encierran oráculos numinosos. Una sacerdotisa musculosa vive en el Panteón, entre las divinidades del cielo y de la tierra. Se retuerce estáticamente; sólo ella conoce las fórmulas arcanas, los gestos rituales; sabe cómo tocar los simulacros de marfil de los dioses para provocar responsos.

Las sílabas van a estrellarse contra mis dientes. Las consonantes se quiebran: salen de la boca flamantes, lisas, resplandecientes sobre el filo.

Comer, lavarse. Masticar, cepillarse. Destruir; y luego esconder rápidamente el rastro de la destrucción. Fingir que no pasa nada. Limpiarse la conciencia. Mostrarse siempre cándidos e inocentes. Sonreír afablemente, rechinando.

El estómago gruñe; la nariz husmea promesas de manjares suculentos; la lengua se lame los bigotes; se me hace agua la boca. Solo mis dientes, que dentro de poco participarán activamente, se mantienen indiferentes ante la perspectiva de sentarse a la mesa. Comer o no comer: ¿a ellos qué más les da? No van a engordar, no van a adelgazar. No obstante, una vez empezada la comida, se convierten en comensales muy voraces. Trituran la comida para conocer su secreto, inspeccionan sus fibras más íntimas en busca de aquello que todos llaman sabor y que sólo ellos no conocen aún. Mis dientes son sordomudos que desarman el radiecito en busca de la voz, desesperados lo hacen añicos. Se vengan del bocado que les procura alegría a todos menos a ellos; pero destrozándolo no hacen más que aumentar el placer del gusto.

Mis dientes fueron incubados mucho tiempo por las encías. Después del parto ya no pudieron desprenderse de la madre, se quedaron aferrados con lazos solidísimos, mediante cordones umbilicales inextirpables.

¡Ah! ¡Qué dientes aquéllos! Mis dientes de leche tenían mucha menos mamitis que los de la nueva generación; mis dientes de leche se separaron muy jóvenes de la familia; quién sabe dónde estarán ahora, a qué gente frecuentarán.

Los primeros huesos en cariarse mientras vivo, los últimos en desmoronarse cuando esté muerto, mis dientes se convertirán en la parte más duradera de mí mismo solo cuando yo me haga a un lado. Soy yo el que pone en peligro a mi cuerpo, no es mi cuerpo el que me extingue. Para garantizar la salud de mis dientes, debería dejar, no solo de comer, de lavarlos, de ser solícito con ellos, sino simplemente de ser. Muerto me volveré perfectamente sano.

Cuando no quiero saber qué horas son, me muerdo el dorso de la muñeca: la impronta de mis dientes deja un reloj sin manecillas. El cuadrante marca todos los instantes y ninguno. No duele y pasa pronto. En mi piel no queda rastro. La eternidad se desvanece en pocos minutos.



Tiziano Scarpa (Venecia, 1963) es novelista, ensayista, dramaturgo y poeta. Al español se han traducido sus libros Ojos en la parrilla (Destino, 1998), Venecia es un pez. Una guía (Mínúscula, 2007) y Cuerpo (Abismos, 2017).